Il sessantotto per loro è un pezzo d’antiquariato. Pregevole per molti, insignificante o sospetto per altri, un incubo per chi è stato afflitto in casa da parenti nostalgici di Villa Giulia o di via Festa del Perdono. Ma fondamentalmente non gliene importa niente. I loro riferimenti stanno più spesso in miti individuali. Molto Saviano in questo momento, e giustamente. E anche Obama non scherza. E pure Gino Strada. Gli piace, e come no, Travaglio. Insomma, chi fa qualcosa che cambi il mondo che esiste o che sappia stare contro il potere. E anche se “no global” non si usa più, hanno molto a cuore i temi di Genova G8.
Ma perché si stiano muovendo a centinaia di migliaia per tutte le città d’Italia, perché manifestino, occupino, discutano della scuola e dell’università e dei loro destini da settimane, questa è un’altra cosa, che attiene di più alla loro condizione. Nessun confronto con il sessantotto, per carità, anche perché il rischio è sempre quello di privilegiare e di portarsi a braccetto i fantasmi del passato. Possiamo però dire che è giunto finalmente al pettine il nodo che da anni tutti vedono e deprecano senza che diventi mai tema di governo. Si parano davanti a noi i primi studenti nella storia che hanno la certezza che il proprio futuro sarà molto più precario di quello dei genitori.
Vedono quel che sta capitando ai propri fratelli maggiori, i quali questa sconvolgente novità l’avevano appena fiutata, smorzata com’era dall’ esperienza del benessere e dalle reti di protezione familiari. Sgomento per il futuro, studi di cui non si intravede lo sbocco, lauree triennali e poi magistrali e poi master, pezzi di formazione senza fine, percorsi astrusi e pensati non per loro ma per elargire cattedre universitarie, lavori da pochi euro l’ora, la percezione che bisognerà arrangiarsi a lungo. Che andranno avanti i più geniali o quelli che stanno nel rosso dell’uovo, i figli del due per cento della popolazione più ricco di soldi e relazioni. Oppure: che gli strumenti indispensabili per scavarsi un piccolo alveo nel mondo che cambia, per non farsi superare dai tempi, li troveranno fuori dalla scuola e dall’università, si tratti delle conoscenze informatiche come delle lingue.
E’ su questa incertezza, o meglio su questa perfida certezza, che piomba come un treno la riforma Gelmini. Il suo spirito prima del suo testo. L’idea che occorra un surplus di autorità viene respinta non perché questa generazione provi esattamente l’orticaria davanti a ogni richiamo all’autorità. Ma perché sembra l’ultima cosa di cui si abbia bisogno per ridare un senso allo studio. Perché si avverte come non mai l’esigenza di riqualificare tutto: scuola, università, ricerca. Non si dice forse che l’unica vera chance per competere sulla scena della globalizzazione, della concorrenza di paesi un giorno ex coloniali o terzo mondo, è la qualità, il valore intellettuale e tecnologico aggiunto? Ecco invece i tagli. Su una scuola che è già allo stremo. Tagli alla cieca, a percentuali, anche a costo di aumentare le difficoltà dei più deboli. La nuova generazione di studenti avverte d’istinto che su questa strada sarà tradita. E non lo dice neanche confusamente. Non usa frasi imbevute di ideologia, che ormai -fatte alcune penose eccezioni- non ricorrono nemmeno nel lessico familiare dei suoi esponenti politicamente più impegnati. La stessa opposizione ai progetti di privatizzazione, di trasformazione delle università in fondazioni, non ha le motivazioni e i toni del movimento della Pantera, che segnò i primi anni novanta. Non è pregiudiziale o ideologica. Ma muove dalla concretezza, da quanto si è visto in questi anni in ogni campo. Il privato che, ben diverso dai “nostri” che giungono a cavallo, anziché salvare il pubblico ne succhia l’anima. Il privato che reclama flessibilità per dare più lavoro ai giovani e poi dissemina la società di nuovo e incontrollato sfruttamento.
Provate a mettere sul piatto di quello che accade il sette in condotta (in sé non turpe), il grembiulino, i tagli, la ricetta del passaggio al privato e ne ricaverete una sensazione mista di paura e di beffa. Altro che sognare la fine dell’alienazione, altro che la piccola borghesia che chiede l’università di massa. Altro che la cultura per tutti, nello Stato sociale che si apre ai bisogni dei più deboli. Altro che la liberalizzazione degli accessi. Senza sbocchi lavorativi, numeri chiusi ovunque, lo Stato che comunica che la cultura è un costo insopportabile. Una generazione preme alle porte della nostra cittadella adulta. E nelle sue varianti, sociali, culturali e politiche, ci comunica il sentimento che l’accomuna: si sente ricacciata indietro, mandata allo sbaraglio. Detto con altro linguaggio: non si sente voluta bene. E scusate se è poco.
Poker Patrol
4 anni fa
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